Affascinato dalla Swinging London, Fiorucci, l’imprenditore milanese che odiava essere definito stilista, si è trasformato in un indagatore della società che cambia. E dal 1967 a oggi ha continuato a creare cultura attraverso l’invenzione di una nuova moda.

Il capo di moda che avrei voluto inventare? Le sneakers. I giovani di oggi possono metterle in tutte le occasioni, sono scarpe eterne che portano lontano. E poi sono di gomma” aveva detto lo stilista in un’intervista all’ANSA pochi giorni prima del suo ultimo compleanno mostrando ancora quella verve che aveva reso famoso il suo street style colorato e allegro, ancora oggi in voga. Lui stilista non si era mai creduto, era molto di più: Elio Fiorucci è stato un imprenditore che, avendo molto fiuto e molto spirito di osservazione, ha saputo valorizzare il suo rischio di impresa. Lui, preferiva dire che era un commerciante, come il padre: «Lo sono sempre rimasto. Non mi piacciono i panni dello stilista. Sono un commerciante che ha avuto l’umiltà di guardare con attenzione alla vita, ai comportamenti».

Elio Fiorucci era nato nel 1935 in una Milano non ancora industriale. Il padre aveva tre negozi di pantofole, uno in via Torino, uno in via Eustachi e un altro in una traversa bassa di Corso Buenos Aires e con lui ha cominciato a lavorare. Non era neanche molto giovane quando, nel 1967 arriva a Londra e riceve una folgorazione dopo l’altra: la Swinging London, il negozio di moda di Biba, King’s Road, Carnaby Street. «Quel casino mi commosse. Dirlo oggi può far ridere chi non ricorda il passatismo, l’inamidamento, il conformismo delle nostre proposte di guardaroba, i negozi di abbigliamento tutti all’insegna dell’aristocrazia vecchia Inghilterra o della sudditanza allo chic di Parigi. Quel casino testimoniava un rapporto nuovo, libero con il problema del vestire, dell’eleganza. La moda non scendeva più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma nasceva dal basso sotto la spinta di una turbinosa evoluzione del costume. Ho soltanto un merito, averlo capito. Tutta la vicenda Fiorucci prende avvio da un atto di attenzione». Più che una dichiarazione, data alla stampa molto tempo fa, questo era il manifesto di Elio Fiorucci. Tanto più che tutta la sua storia di marchio nasce non da un abito ma da un paio di galosce in plastica e colorate: da vecchio arnese li trasformò in un successo commerciale. Uno dei tanti che sono poi capitati nella vita di Elio Fiorucci. Come l’aver portato in Italia i jeans “alla moda”, cioè quei jeans stretti in vita, fasciati sui fianchi, stretti sulle gambe e allargati verso il fondo che tutti volevano, tutti compravano, tutti indossavano a partire dal 1967. Fino a quando è diventato un padre nobile della moda italiana, pronto a dare pareri e consigli, e a continuare a interrogarsi, osservare, a prestare attenzione e, dopo la cessione del marchio, a dare alla sua nuova impresa un nuovo nome, programmatico anche questo: Love Teraphy.

Gli inizi di Elio Fiorucci sono estremamente legati al cambiamento che l’Italia doveva affrontare alla fine degli Anni 60, con il Sessantotto francese che trainava come una locomotiva e quell’italiano più lento, a rimorchio, con il femminismo che diventava una coscienza femminile e il linguaggio generazionale che assumeva un vocabolario incomprensibile alla generazione precedente. Fu così che l’apertura del primo negozio Fiorucci in Corso Vittorio Emanuele a Milano rappresentò uno shock per la borghesia milanese che, invece, in quella strada aveva i propri negozi austeri e il proprio salotto buono, tra i bar della Galleria e il lusso borghese della Rinascente dell’epoca. Fiorucci arrivò con i suoi “stracci” colorati a portare disordine in un ordine finto.

Segnato dall’esperienza londinese, Fiorucci imparò in fretta la lezione dell’epoca: mischiare riferimenti, renderli compatibili uno con l’altro e proporle senza preoccuparsi dei tabù. Fu così che molti giovani conobbero i colori strani e capirono che erano quelli di Andy Warhol e della Pop Art, che capirono che i jeans potevano diventare dei “pantaloni sociali” e non solo i calzoni comodi dei weekend in campagna, che i colori potevano essere mischiati e non abbinati, che gli abiti potevano nascere da un assemblaggio di più capi, che lo stile non era una questione di misure perfette e calzanti e di abbinamenti da manuale ma un prodotto di una fantasia personale. Forse fu lui che inventò il Casual all’Italiana, come poi chiamarono tutte le altre popolazioni europee e americane lo stile di quegli italiani che, ancora in pochi, viaggiavano e soggiornavano all’estero. E a suo modo, Fiorucci nel periodo della contestazione giovanile fece la sua rivoluzione nella moda inventando il fast style, quei capi di abbigliamento a colori fluo, le T-shirt stampate con gli angioletti e i cuori e gli accessori in plastica, amati dai giovani di quella generazione, soprattutto in Italia, identificati a Milano come ‘paninari‘ e a Roma come ‘pariolini‘. Fiorucci era a suo modo un visionario, attento fino alla fine ai cambiamenti della società e della moda. Come fu lui che inventò, anche, la spregiudicatezza dell’abbigliamento di alcuni divi dello spettacolo italiano dell’epoca, primi fra tutti Renato Zero e Loredana Berté che si vestivano uguali (unisex, si diceva allora; no gender si direbbe adesso), con gli stessi jeans e le stesse camicette leopardate (si pettinavano anche allo stesso modo, all’epoca).Fiorucci fu un boom. Tanto che la Montedison investì nel suo business e lui portò il suo stile all’estero. «Eravamo un fenomeno milanese e italiano. La mia bottega fatturava quattro, cinque miliardi. La nostra notorietà era inversamente proporzionale alla forza economica. Siamo diventati un fatto mondiale sbarcando a Londra e negli Stati Uniti dove il Made in Italy era rappresentato da Gucci e Ferragamo», dichiarò anni dopo in un’intervista a Guido Vergani.

Credits : FIORUCCI

Redatto da:  CLAUDIA PALOMBI