Muhammad Alì era forte, veloce, intelligente, bello, carismatico. Un diamante nero. Ogni volta che rivedo qualche sua foto o qualche suo incontro, lo sento subito dentro, lo sento sulla pelle, i muscoli si contraggono e i peli si drizzano.

Muhammad Alì è il nome islamico di Cassius Marcellus Clay Junior, che nacque a Louisville, negli Stati Uniti, il 17 gennaio 1942 e muore oggi, 4 giugno 2016 a Phoenix.
La mia carriera pugilistica, quando ero sedicenne, è stata un completo disastro ma per esperienza posso affermare che solo chi ha varcato il tappeto può capire l’effettiva grandezza dell’atleta che è stato Muhammad Alì.

Centonovantuno centimetri di altezza per 97 chili, negli anni ’60 nessuno aveva mai visto fare cose del genere. Nonostante l’altezza Alì era velocissimo, aveva un gioco di gambe spaventoso, i colpi partivano con una naturalezza imbarazzante; schivava e rientrava in un lasso di tempo così ristretto che l’avversario non aveva il tempo materiale di capire in quale direzione doveva spostarsi per non vedersi arrivare sotto il naso un montate da 97 chili, e un montante che pesa così tanto solo chi ha praticato il pugilato può capire cosa significa. Il panorama pugilistico ha visto atleti di enorme talento, forza e velocità, ma mai nessuno è stato finora come lui.

A iniziarlo alla boxe fu un poliziotto irlandese che vide qualcosa di speciale in quel ragazzino di 12 anni, e non si sbagliava. Cresciuto professionalmente sotto la direzione dell’allenatore Angelo Dundee conduce una brillante carriera dilettantistica fino all’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960; Dundee lo seguì praticamente fino alla fine della carriera, consacrando il binomio più vincente della storia della boxe.

Il carattere di Alì era aggressivo, spavaldo e carismatico; nessuno riusciva a capire se fosse così per scelta o si trattava di una inclinazione del tutto naturale, sta di fatto che ogni apparizione pubblica, ogni incontro, ogni dichiarazione del pugile erano incorniciate da un tono di voce aggressivo, talvolta accompagnato da un colorito gesticolare. Di lui disse “volo come una farfalla, pungo come un’ape” a dimostrazione della sua incredibile predisposizione allo schivare i colpi, al gioco di gambe e alla velocità di reazione in generale, ma soprattutto a dimostrazione del suo forte narcisismo. Prendo l’esempio di un’intervista in bianco e nero in cui Gianni Minà chiese ad Alì in inglese :«Questo suo tono aggressivo, quando parla, lei lo sceglie o le viene naturale?» e Alì rispose vivacemente :«Sono aggressivo quando mi arrabbio, quando penso a Joe Frazier e quando penso a George Foreman. Questo mi rende aggressivo. Non sono aggressivo ma voglio combattere, sì voglio combattere! Ecco perché mi arrabbio. E anche questo tipo di domande mi rende aggressivo» poi assumendo la guardia col destro sotto il mento proseguì :«Now I am aggressive, but I wanna fight!» simulando un diretto sinistro e un gancio destro rivolto alla telecamera. Ecco, questo era Alì. Questa lucida follia del pugile rimarrà per sempre impressa nella mia memoria, ammaliata dal suo modo di fare così egocentrico eppure così carismatico. A 16 anni io ero uno dei tanti che volevano essere Muhammad Alì; io non volevo essere Dio, io volevo essere Alì.

Il primo titolo mondiale dei pesi massimi lo vinse nel 1964, a 22 anni, quando ancora era Cassius Clay. L’avversario era un certo Sonny Liston. Quest’ultimo era più basso di Alì ma non così tanto da non incutere timore guardandolo; Sonny Liston faceva paura in tutto e per tutto, lo chiamavano “il grande orso nero” oppure “il bombardiere nero”, era il pugile della mafia, era uno che entrava e usciva di galera, uno che disarmava un poliziotto per poi farsi pregare in ginocchio di non ucciderlo, uno definito all’epoca come la massima espressione della boxe. Le circostanze della vittoria di Clay furono incerte e oggetto di critiche e dubbi, qualcuno gridava allo scandalo, qualcuno vedeva in quell’incontro il tramonto della carriera professionale di Liston. L’anno dopo l’ormai Alì concede la rivincita a Liston, che viene sconfitto di nuovo in circostanze poco chiare, celebre infatti il “pugno fantasma” sferrato da Alì e che sembra essere poco violento ma che atterra ugualmente lo sfidante.

Ma rimane alla storia l’epocale incontro valevole per il titolo mondiale del 1974, a Kinshasa, Zaire ex Congo belga, denominato The rumble in the jungle, la lotta nella giungla; organizzato al pittoresco Don King, peraltro manager di grandi campioni della boxe, Alì compreso. Il campione in carica è George Foreman, 25 anni, Alì ne aveva 32. Entrambi afroamericani, Alì era visto dagli spettatori africani come il fratello che torna dai fratelli, Foreman un nero amico dei bianchi. Era vietato tifare Foreman, era legittimo urlare «Alì boma yé» Alì uccidilo. Big George, così soprannominato, è un omone alto e possente, all’epoca dei fatti era dotato di una forza straordinaria ma di scarsa tecnica; martellava al corpo e al volto buttando a terra l’avversario. La sua strategia era elementare, si limitava infatti ad attaccare e a chiudersi per incassare, tattica che fece la sua fortuna solo grazie alla sua forza bruta capace di atterrare pugili molto forti; ma se si trattava di combattere con un pugile tecnicamente intelligente, il discorso era diverso. Ne fu testimonianza l’incontro con Alì. Per tutta la durata Foreman mise sotto pressione l’avversario, colpendolo con ripetuti, pesanti ganci e montanti. La tattica di Alì era ambigua a tutti, compreso il suo staff, continuava infatti a stringersi alle corde incassando i colpi, liberandosi e talvolta sbeffeggiando l’avversario per farlo innervosire; girandogli – anzi danzandogli – intorno per stremarlo. Al quinto round la prima svolta dell’incontro, Alì si libera dalla morsa di Foreman, ormai stanco, e gli piazza una serie di colpi al volto che lo costringe a barcollare, fino all’ottavo round quando un Foreman oramai stremato è raggiunto da una scarica di colpi che sanciscono il definitivo KO e la vittoria di Alì. La sua tattica risiedeva nell’elasticità delle corde, egli infatti vi si adagiava per ammortizzare il colpo ricevuto, attenuandone di fatto la forza. Atipica per un pugile che non fa dell’incassare la sua arma principale.

Inutile ribadire quanto hanno già ampiamente specificato i giornalisti sulla lotta ammirevole, irreprensibile e assidua di Alì contro il razzismo e la segregazione razziale che lo portarono fra l’altro a gettare in un fiume la medaglia d’oro olimpica dopo che qualche sera prima in un ristorante si rifiutarono di servirlo perché nero; o il suo rifiuto di presentarsi alle armi nella Guerra del Vietnam e ancora, la conversione all’Islam e il conseguente cambio di nome, come prima di lui fece Malcom X.

Alì ha combattuto le sue battaglie una per una sempre con un atteggiamento incredibilmente veemente, oggi però perde quella più importante, quella più personale, contro il morbo di Parkinson. Perde ma lo fa a testa alta, come da sempre ci ha abituati.  Lo sport e in particolare la Boxe perdono un rappresentante importante, forse il più importante di tutti, figura rivoluzionaria in ambito sportivo e sociale capace di imporsi con forza nella lotta per i diritti dell’uomo e allo stesso modo rimanere indelebile nella mente di ognuno di noi. E fa niente se era uno spaccone, io sognerò lo stesso di essere lui. Sempre.

“Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è solo un’opinione; impossibile non è una regola, è una sfida; impossibile non è uguale per tutti; impossibile non è per sempre; impossible is nothing.”

Redatto da: VINCENZO TIRITTERA