Una ricerca sui cultori di ostilità

Haters be like: professionisti dell’odio li chiama qualcuno. E’ un fenomeno sempre esistito ma che con l’avvento di internet si è rafforzato e moltiplicato tanto che per studiarlo hanno unito le forze l’osservatorio Vox, l’Università di Milano, Bari e La Sapienza di Roma. A dimostrazione di quanto sia diffuso e per certi versi pericoloso.

Fuori dal contesto virtuale, e quindi nelle relazioni interpersonali, sarà capitato anche a te di imbatterti in conversazioni dove uno o più partecipanti dal dente avvelenato abbia intavolato una discussione facendo letteralmente a pezzi il povero malcapitato. Ebbene vi sarà capitato, e statene certi vi ricapiterà.

Sostanzialmente un hater è questo, è una persona che odia un gruppo di persone o un singolo. Oltre l’odio, però, più spesso si tratta di gelosia. Ma attenzione: un hater, a differenza del geloso, non ambisce a diventare come colui che prende in giro, piuttosto il fine ultimo è di smontarlo per abbassarne il livello. Il web dictionary “Urban Dictionary” , con toni tragicomici, definisce un hater: “semplicemente una persona che non riesce ad essere felice del successo di un’altra persona. Quindi piuttosto che vivere serenamente, fanno del tutto per esporre i difetti di chi prendono di mira”.

Tutto questo si traduce facilmente nel contesto virtuale dei social network, dove la figura dell’hater è individuabile facendo una ricerca neppure approfondita. La difficoltà arriva quando si tenta di circoscrivere tale categoria in genere, numero o anzianità. L’hater che si nasconde dietro un nickname spazia in tutte le caratteristiche: uomini o donne, vecchi o bambini. Ma appartiene abitualmente ad una precisa tendenza, che può spaziare dall’intolleranza al razzismo fino alla xenofobia.

In un recente approfondimento de Il Fatto Quotidiano si legge la citazione del prof. Lingiardi: “l’odio è sempre figlio di un disturbo o un disagio e i social network spesso funzionano come luoghi di evacuazione delle proprie scorie psichiche”.

Sono come difese psichiche primitive che si esprimono attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui. E’ una forma di bullismo senza esposizione fisica.

Su un campione di milioni di tweet in un dato lasso di tempo, indirizzati a donne, omosessuali e immigrati è stato estrapolato un risultato allarmante, specchio di una società che non è ancora pronta ad affacciarsi alle trasformazioni sociali cui naturalmente l’uomo è sottoposto mentre attraversa i periodi storici, caratterizzati proprio da quei dati eventi.

Intervenire nel tentativo di estinguere questa cattiva condotta non è agevole – prosegue la professoressa D’amico sempre sul FQ- poiché le recenti normative adottate dai paesi europei ed extraeuropei, vista la vastità del fenomeno, non risultano efficaci. Bisognerebbe quindi troncare il problema alla radice, agendo a priori, lavorando sull’educazione all’uso di internete in tenerà età, nelle scuole elementari.

Solo una mutazione culturale potrà liberarci.