Lo haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. Generalmente è composto da tre versi per complessive diciassette more (e non sillabe, come comunemente creduto), secondo lo schema 5/7/5.

Inizialmente indicato con il termine hokku (発句 lett. “strofa d’esordio“), deve il suo nome attuale allo scrittore giapponese Masaoka Shiki, il quale coniò il termine verso la fine del XIX secolo, quale forma contratta dell’espressione haikai no ku 俳諧の句 (letteralmente, “verso di un poema a carattere scherzoso“). Il genere haiku, nonostante già noto e diffuso in Giappone, conobbe un fondamentale sviluppo tematico e formale nel periodo Edo (1603-1868), quando numerosi poeti tra cui Matsuo Bashō, Kobayashi Issa, Yosa Buson e, successivamente, lo stesso Masaoka Shiki utilizzarono prevalentemente questo genere letterario per descrivere la natura e gli accadimenti umani direttamente collegati ad essa.

Lo haiku ha origini molto incerte: sembra derivare dal genere di poesia classica giapponese chiamato waka 和歌 (letteralmente, “poesia giapponese“), poi ribattezzata tanka 短歌 (“poesia breve“) da Masaoka Shiki, ma molto probabilmente trae origine dalla prima strofa (lo hokku) di un renga, il componimento poetico a più mani. Lo haiku è caratterizzato dalla peculiare struttura in 3 versi, rispettivamente di 5, 7 e 5 more. Per la sua immediatezza e apparente semplicità, lo haiku fu per secoli una forma di poesia “popolare” trasversalmente diffusa tra tutte le classi sociali in contrasto alla ben più elaborata poesia cinese o alle costruzioni retoriche dei waka e solamente nel XVII secolo venne riconosciuto come una vera e propria forma d’arte grazie ad alcune opere di famosi scrittori tra cui Matsuo Bashō. Lo haiku è una poesia dai toni semplici, senza alcun titolo, che elimina fronzoli lessicali e retorica, traendo la sua forza dalle suggestioni della natura nelle diverse stagioni. La composizione richiede una grande sintesi di pensiero e d’immagine in quanto il soggetto dell’haiku è spesso una scena rapida ed intensa che descrive la natura e ne cristallizza dei particolari nell’attimo presente. L’estrema concisione dei versi lascia spazio ad un vuoto ricco di suggestioni, come una traccia che sta al lettore completare. Molto diffusa nel periodo Edo era la scrittura di diari di viaggio (haibun 俳文) inframmezzando parti in prosa con componimenti del genere haiku, un famoso esempio è l’opera Oku no hosomichi del poeta Matsuo Basho, completata dopo un pellegrinaggio nel Nord del Giappone, nel 1689.

In ogni haiku è presente un riferimento stagionale (il kigo 季語 o “parola della stagione“), cioè un accenno alla stagione che definisce il momento dell’anno in cui viene composto o al quale si riferisce. Il kigo può essere un animale (come la rana per la primavera o la lucciola per l’estate), un luogo, una pianta, ma anche il nome di un evento oppure una tradizione, come ad esempio i fuochi d’artificio per indicare l’estate. Il kigo costituisce il tema principale dello haiku ed è considerato dagli haijin 廃人 (“poeti di haiku”) il cuore stesso del componimento poetico. Il Maestro giapponese Seki Ōsuga (1881-1920) afferma, al riguardo, come “il richiamo alla stagione rappresenta quel sentimento che emerge dalla semplice osservazione e contemplazione della dignità naturalistica, e proprio qui risiede l’interesse nei confronti della poesia haiku, laddove ogni cosa è armonizzata e ricondotta ad unità attraverso questo stesso sentimento.” Data la loro importanza per la corretta scrittura di haiku, in Giappone vengono redatti dei cataloghi chiamati saijiki 歳時記 (“antologia delle stagioni“) che raccolgono tutti i riferimenti divisi per stagione in sette sezioni convenzionali: Stagione, Fenomeni celesti, Fenomeni terrestri, Eventi, Vita umana, Animali e Piante. È interessante notare che in forma indiretta e meno rigida, il kigo è utilizzato anche nelle canzoni J-Pop, dove ad esempio i ciliegi o l’inizio delle scuole fanno pensare alla primavera. I versi dell’haiku sono strutturati in modo da presentare almeno un kireji 切れ字 (“parola che taglia“), ossia una cesura, un rovesciamento che può essere o meno indicato da un trattino, una virgola, un punto, ma che nella lingua giapponese viene resa attraverso particolari categorie di parole non direttamente traducibili in italiano, come ya や, kana かな e keri けり. Il kireji ha la funzione di segnalare al lettore un ribaltamento semantico o concettuale, un capovolgimento di significato che può avvenire ad esempio tra il primo e i due versi seguenti, oppure in qualsiasi altra posizione. La tradizione poetica risalente allo hokku, vuole, tuttavia, che tale stacco (kiru 帰る) venga preferibilmente collocato al termine del primo o del secondo verso. Tale rovesciamento semantico è spesso indice della riuscita di un haiku, sottintendendo la complessità del sentire poetico e realizzando un salto dell’immaginazione tra concetti e immagini apparentemente distanti. Un esempio evidente lo troviamo nello haiku di Masahide, dove il trattino rappresenta il rovesciamento, il salto:

« Il tetto s’è bruciato –

ora

posso vedere la luna. »

(Masahide)

Nonostante lo haiku classico e più diffuso segua lo schema sillabico 5/7/5 importanti autori sia giapponesi, sia italiani hanno preferito uno schema più libero. In particolare ricordiamo i maestri giapponesi Hekigodo, Hosai e Hosha. Arena afferma, in relazione ai precedenti, che essi aderirono alla “scuola del verso libero”. Alfonso osserva acutamente che “se è vero che ogni rigido purismo formale può alimentare quel fenomeno di destabilizzazione che favorisce il processo creativo, è anche vero che esso può essere posto, per converso, al servizio di quelle difese psicologiche volte a proteggere, legittimamente e umanamente, i nostri attaccamenti consci o inconsci, di qualsiasi genere essi siano.” Tra i poeti italiani che hanno adottato forme metriche “libere” ricordiamo Ungaretti.

Credits:  LIBERO

Redatto da:  CLAUDIA MINNA