Nella moda un giorno sei “in” e il giorno dopo sei “out”. Il fast fashion lo sa bene! Prezzi vantaggiosi e un ciclo vitale breve – superiore, forse, solo a quello di una farfalla – sono le caratteristiche che contraddistinguono gli abiti e gli accessori delle grandi catene della moda low cost.

Non è tutto oro quel che luccica.

La qualità non sarà delle migliori, ma come resistere ad abiti sempre alla moda – che strizzano l’occhio alle collezioni viste sfilare, solo qualche tempo prima, sulle più importanti passerelle- dal prezzo estremamente irrisorio? Un risparmio che, però, nasconde un’amara verità. Una realtà dura, intrisa di sudore e sangue di uomini e donne. Di sfruttamento. Di condizioni di lavoro a dir poco disumane. Quella stessa realtà che il regista indiano, Rahul Jain, ha voluto raccontare nel suo film Machines.

A che prezzo?

Salari minimi. Misure di sicurezza inesistenti. Orari massacranti. Lavoro alienante. Un costo che in termini di vite umane risulta estremamente alto. Anzi altissimo. Un dramma che continua a consumarsi all’ombra di quei grandi colossi della moda low cost – come il gruppo Inditex (Zara, Stradivarius, Pull&Bear…) oppure H&M, o Primark –, che hanno basato la fortuna dei propri imperi  su consolidate forme di schiavismo.

Come delle Machines

Per i primi 13 minuti del film il dialogo è completamente assente. Operai e macchinari si fondono in una ritualità e ripetitività di gesti. Le immagini hanno così l’arduo compito di descrivere una realtà alienata, consumata dalla monotonia e resa possibile dalla miseria. Una condizione disumana, contraddistinta da turni di lavoro interminabili – di 12/16 ore –, oltre che da una paga misera – meno di 3 dollari al giorno-. Uno stato di degrado che emerge con forza dai racconti di alcuni operai di un’industria tessile nello Stato di Gujarat, in India.

Acclamatissimo al Sundace Film Festival 2017, secondo Rolling Stone Italia si tratta di: “Un film al tempo stesso ipnotico e spaventoso che ci offre uno sguardo raggelante sul lavoro industriale, senza quasi mai dire una parola”.

Attraverso lunghissime inquadrature, interrotte solo dalle testimonianze dirette di alcuni lavoratori – molti dei quali, costretti ad abbandonare i propri villaggi, pur di assicurarsi questo tipo di impiego-, il regista esamina e al tempo stesso denuncia le durissime condizioni di lavoro che, ancora oggi, migliaia di uomini e donne – e in molti casi, anche bambini e ragazzi- subiscono all’interno di queste fabbriche.

Risparmiare sì, ma a che prezzo?