Dopo oltre 10 anni, l’artista Anish Kapoor torna ad esporre in Italia, dal 17 dicembre al 17 aprile presso il museo Macro di Roma.

La mostra, curata da Mario Codognato, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio dell’Ambasciata Britannica di Roma, main sponsor BNL Gruppo BNP Paribas.
Sir Anish Kapoor, nato a Bombay nel 1954, da padre indiano e da madre ebrea irachena, a diciannove anni si sposta in Inghilterra per iscriversi alla scuola d’arte, infatti vive e lavora a Londra sin dagli anni ’70.  All’inizio degli anni ottanta la sua ricerca scultorea, incentrata sulla sperimentazione di forme nuove, in un continuo dialogo tra bidimensionalità e tridimensionalità, lo rende uno degli artisti più rappresentativi della New British Sculpture, termine con il quale la critica identifica la nuova scena della scultura inglese,di cui fanno parte artisti come Tony Cragg e Antony Gormley.
Dà vita a una serie d’installazioni volte a indagare i temi portanti nel suo percorso artistico: l’androgino, ovvero la dicotomia femminile-maschile, la sessualità, il rito con un uso più ampio del mezzo scultoreo in sintonia con alcune ricerche degli anni sessanta, come l’arte povera o l’opera di Joseph Beuys.

Tutti i lavori di Kapoor hanno dei titoli chiarificatori.
Il titolo, infatti, come diceva Marcel Duchamp, è una parte fondamentale dell’opera. Per esempio prendiamo in esame La guarigione di San Tommaso del 1989: si tratta di una quasi impercettibile raschiatura fatta su una delle pareti della stanza espositiva. Una lacerazione rossa sul muro bianco, una specie di ferita: come quella presente sul costato di Cristo risorto e che Tommaso vuole toccare per sincerarsi della sua meravigliosa presenza.
Dagli anni novanta, le sue opere assumono dimensioni sempre più monumentali, spesso incentrate sulla tematica del vuoto, con quel richiamo Duchampiano che lo portano a distinguersi attraverso installazioni studiate e assai riconoscibili.
“Davanti ai suoi buchi – ha scritto di lui Francesco Bonami – ci si perde come guardando dentro un pozzo o dentro il buio di una grotta. Ogni spettatore ritorna bambino, ognuno ritrova il ventre della grande madre primordiale. L’angoscia si trasforma in meraviglia”.
Nel 1991 con l’assegnazione del Turner Prize, l’artista raggiunge la fama internazionale, mentre dall’anno scorso ha acquistato i diritti di esclusività sul nero più nero che esiste al mondo, il Vantablack.

Presso: Macro Roma di via Nizza

di Stefany Barberis