La mostra in onore di Edward Hopper allestita al complesso del Vittoriano è un elogio alla solitudine e alla luce

Dal 1 ottobre 2016 al 12 febbraio 2017, l’Ala Brasini del complesso del Vittoriano, a Roma, ospita ed ospiterà la mostra Edward Hopper il pittore statunitense del ventesimo secolo. Realizzata con il patrocinio dell‘Istituto per la Storia del Risorgimento, organizzata e prodotta da Arthemisia Group in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York. L’esposizione, curata da Barbara Haskell, ripercorre la vita del pittore statunitense dagli acquerelli parigini agli scorci cittadini degli anni ’50 attraverso più di 60 opere tra cui capolavori come Le Bistro or The Wine Shop del 1909 o Girlie Show del 1941. Opere che vanno a celebrare la mano di Hopper, ripercorrendo tutte le fasi artistiche della sua vita, ad oggi un grande classico del ‘900.

Nei primi anni del ‘900 l’arte vive momenti di trasformazioni profonde, soprattutto in Europa dove gli artisti avviano a Parigi la distruzione dei canoni consueti dell’arte, dando il via al periodo chiamato “Avanguardia”, mentre dall’altra parte dell’Oceano grandi invenzioni cambieranno per sempre la vita dell’uomo. E proprio in America vive Edward Hopper (1882 – 1967), animo conservatore si rifiuterà in più riprese di perseguire le trasformazioni che si stanno verificando. Pur avendo vissuto quasi tutta la sua vita a New York non è interessato minimamente ai grattacieli, alla vastità di persone, alle automobili e alle arti che riscuotevano maggiore successo: il Cubismo prima, l’Astrattismo dopo. Hopper si dedica alla pittura di caffè deserti in cui ogni cliente è assorto nei propri pensieri, a binari arrugginiti che corrono su prati deserti e soprattutto fari isolati su qualche scogliera. Passerà l’intera vita a New York, con una breve parentesi di qualche mese a Parigi, capitale europea che lo affascina più di tutte le altre. Ciò che lo colpisce particolarmente di Parigi è lo stile di vita dei parigini, la miriade di caffè sempre affollati e le strade piene di gente che sembra quasi che vi abitino, per strada. Allo sguardo attento di Hopper pareva che i parigini affollassero le strade perché pensavano solo a divertirsi mentre a New York il pensiero fisso era quello di fare soldi a tutti i costi, alienandosi talvolta. Tornato in America trova non poche difficoltà ad inserirsi in un contesto artistico decisamente lontano dalla sua concezione, tra l’altro assai influenzata dalla cultura libertina europea e si vede quindi costretto a realizzare opere più “americane”.

I suoi dipinti risultano semplici e riportano lo spettatore all’idea di una fotografia, essendo Hopper un grande estimatore dell’Impressionismo e in particolar modo di Degas, allontanandosi spesso dalla city per raggiungere posti sperduti, solitamente in treno. La sua tecnica di pittura prende forma attraverso lunghe fasi di lavorazione che partono dallo schizzo a matita fino alla stesura del colore. La luce nelle opere di Hopper diventa carattere distintivo, sarà lui in più riprese a confermare che le tecniche di colore utilizzate per rappresentare la luce sono appositamente studiate per dare all’osservatore la possibilità di ricostruire mentalmente svariate rappresentazioni dell’opera stessa.

L’influenza di Edward Hopper sull’universo cinematografico

Nessuno più di Hopper ha influenzato così tanto i registi più acclamati di tutto il mondo. E proprio dal cinema inizia la carriera dell’artista, quando agli esordi disegnava locandine di film in programmazione per guadagnarsi da vivere. Il piano di ripresa al quale era più interessato è il campo medio, questa tecnica aggiunta al nuovo modo di guardare “filmico”, che poco ha a che fare con i soggetti rendendolo non solo pittorico, alimenterà in molti registi la voglia di prendere spunto dalle sue opere per alcune scene. Alfred Hitchcock in Pshico era partito dalla tela di Hopper House the Railroad (1925) per creare la casa-motel di Norman Bates. Uomini misteriosi col cappello e donne sensuali e provocatrici abitano i dipinti; le tante segretarie fasciate in abiti stretti, avvenenti e solitarie, perché è sempre di persone sole che si tratta. La solita sensazione di alienazione e solitudine di cui le tele di Hopper e i film noir si nutrono. Parlando invece di cinema italiano prendiamo Antonioni che con le sue atmosfere rarefatte e il tema dell’incomunicabilità della società moderna trova gli interpreti migliori nelle opere di Hopper; oppure Dario Argento che in Profondo Rosso, in una Torino spettrale, ricostruisce il bar di Nightawks mentre di fronte, dall’altro lato della piazza, si consuma uno dei tanti delitti del capolavoro del regista.

In una delle sale del museo è stato adibito un “laboratorio di disegno” in cui gli spettatori potranno cimentarsi in tavole dove ricalcare i disegni del pittore. I lavori migliori saranno poi pubblicati sul sito dell’organizzazione.

 

Vincenzo Tirittera