Guardando le opere di Marco Verrelli è difficile non rimanere affascinati dai colori vivaci e dall’attenzione che l’artista, classe 1961, dà ai particolari. Nelle sue opere, infatti, Verrelli riesce a catturare e a rendere vivi attimi di vita quotidiana e paesaggi urbani, soggetti che solitamente vengono inconsapevolmente trascurati ai più. Tuttavia non è facile inserire il suo stile all’interno di una vera e propria corrente artistica. Lo stesso Verrelli trova difficile autodefinirsi, preferendo lasciare la parola ai critici che da anni seguono e apprezzano il suo lavoro. Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con lui attraverso un’intervista che spazia dal ricordo dell’infanzia alla ventennale e pluripremiata carriera artistica.
Una vita dedicata all’arte, qual è stato il suo primo approccio con la pittura?
Devo tornare molto indietro nel tempo, ripescare nella memoria ricordi dell’infanzia. Disegnavo, disegnavo sempre, fin da piccolissimo. In famiglia mi consideravano inclinato e mi incoraggiavano. In casa poi c’erano libri d’arte illustrati, ricordo che ci passavo le giornate sopra copiando le tavole con le mie matite colorate. Ma l’incontro con la pittura dal vero lo devo a uno zio artista milanese. Ogni volta che veniva a Roma mi portava con sé nelle sue infinite e ripetute visite alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Per me era un sogno, avrò avuto sette o otto anni. Poi un bel giorno, quello del mio undicesimo compleanno, proprio lui mi regalò un cavalletto, colori a olio, pennelli e una tela. Una magia. Mi spiegò come dovevo fare e da lì è iniziata un’avventura che dura ancora oggi.
Ricorda ancora la sua prima opera?
Ho un ricordo vago, però ricordo bene la mia insoddisfazione, ho impiegato molto a imparare, a passare dalle matite ai pennelli. Da autodidatta ho imparato sugli errori, negli anni ho fatto tutti quelli possibili.
A cosa si ispira esattamente quando disegna? C’è un messaggio che vuole lanciare con le sue opere?
I miei dipinti nascono da visioni del paesaggio reale. Posso venire rapito da una scena oppure da un oggetto, dalla sua plasticità o dal taglio di luce che lo colpisce. Se gli riconosco una forza evocativa, questa immagine nella mia mente si trasfigura in simbolo. L’oggetto caduto dalla sua funzione risorge come emblema o rappresentazione metaforica, prende forma in uno spazio non più fisico ma ideale. Non ci sono messaggi dall’alto, è una comunicazione orizzontale, quasi sempre riflessione sulla condizione umana o constatazione dello stato delle cose.
Come definirebbe il suo stile?
Vogliamo azzardare Realismo Surrealista? Oppure il mondo del Futurismo visto con gli occhi della Metafisica? Non so, è difficile autodefinirsi. Preferisco citare una descrizione di Carlo Fabrizio Carli, un attento storico dell’arte che per primo ha saputo cogliere l’essenza del mio lavoro: “Marco Verrelli, pittore d’immagine, irriducibilmente, ha sempre avvertito il fascino del vero; sempre è stato coinvolto dalla “pelle delle cose“, senza per questo restare imprigionato in una dimensione realista, ma anzi testimoniando un’attitudine di disagio nei confronti della realtà contemporanea. Ma anche il linguaggio – che Verrelli adotta spesso – d’accanita competizione con il vero di natura, d’acribia precisionista, alla ricerca di un vero più vero del vero, supera l’ambito realista, approdando ad esiti spiazzanti di una realtà altra, artificiale e astratta; una sorta di clone geneticamente modificato del vero di natura: clone impeccabile e raggelato. Ecco, insomma – esito ben noto – l’esasperazione dell’esattezza diventare via di accesso al Surrealismo, cui difatti Verrelli guarda con molto interesse, specie nell’accezione magrittiana.”
C’è qualche artista del passato o a noi contemporaneo da cui ha mai tratto ispirazione nel corso della sua carriera?
Da ragazzo ammiravo due grandi geni del passato: Michelangelo, per la possanza dei volumi, e Caravaggio per la violenza della luce e la sua spregiudicatezza. Più avanti ho subito il fascino dell’onirismo surrealista e delle sospensioni metafisiche, quindi Magritte e De Chirico per fare solo due esempi noti. Infine ho amato il lirismo e le solitudini di Eduard Hopper, un altro indiscutibile maestro, già più vicino ai nostri tempi. Ma non posso dire che qualcuno mi abbia influenzato definitivamente, questi e mille altri autori del passato insieme ai contemporanei continuano a nutrirmi, con le loro immagini e le sensazioni che costantemente mi producono.
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