Conosciamo oggi Marco Bertucci, lo sketch-artist che con i suoi lavori segna le anime di chi riesce ad andare “oltre”.
Quando è sorta la tua passione per gli sketch?
La passione per il disegno è nata con me. Da quando, prima ancora di imparare a scrivere, prendevo i volumi dell’enciclopedia illustrata e copiavo le figure degli animali o di Gengis Khan. E poi anche la fortuna di aver avuto uno zio pittore come primo punto di riferimento che mi ha dato la prima, e ancora oggi, fondamentale lezione sul concetto di idea e di rappresentazione: avevo copiato un suo paesaggio ma ero scontento del risultato, affermando che non fosse uguale al suo. Mi disse “è bello proprio perché è diverso, perché è tuo”. Mi aprì un mondo.
Come è nata l’idea di rappresentare frasi di canzoni e poesie?
Per puro gioco. La passione per la poesia e, più genericamente, per la letteratura è sempre andata di pari passo con quella per il disegno. Al liceo ero abbastanza bravo a fare i riassunti per le interrogazioni, ho sempre avuto la capacità di sintetizzare in poche righe interi capitoli, carpendo i punti salienti. Lo stesso cerco di fare per i miei sketch: prendo in prestito il verso di un brano che mi piace e lo ‘traduco’ in immagine, cercando di rimanere fedele al significato di quelle parole in ogni singola linea. La suggestione della musica poi fa il resto.
A chi è rivolta la tua arte?
A tutti coloro che amano creare nella mente nuovi spazi concettuali, a coloro che vogliono dare un aspetto, oserei dire, tridimensionale all’idea di canzone. E, semplicemente, a tutti coloro che amano la musica, l’arte e vivono di sfumature.
Cosa cerchi di trasmettere con i tuoi sketch?
La possibilità di sondare, tramite dei semplici segni, le zone più sensibili del pensiero, specie quando siamo trasportati dalla melodia di una musica che ci piace. Quando disegno amo spesso dire che sto ‘segnando’: questa parola – segno – ha, per me, una funzione quasi catartica. Il segno è quello che traccio, nero su bianco, ma è anche ciò che resta, in me e in chi lo guarda. Se poi ci soffermiamo sul significato del termine ‘in-segnare’ possiamo capirne ancora di più. Cosa c’è di più profondo di “segnare-dentro”?
I tuoi sketch sono frutto di un attento studio o ti lasci semplicemente trasportare dalle emozioni che ti suscitano alcune citazioni?
Sono frutto esattamente di entrambe le fasi. In un primo momento mi abbandono completamente alle immagini quasi oniriche che mi provocano alcune frasi, alcune melodie. Sogno letteralmente ad occhi aperti e nella mia testa iniziano a frullare volti, gesti, colori. Non appena inizio a fare una selezione di quegli elementi che possano servirmi a decodificare quel verso, allora comincio a tracciare su un taccuino un po’ di bozze. Poi, con la tavola grafica, cerco di trovare tutte quelle soluzioni espressive che mi permettano di creare i giusti equilibri visivi. Mi piace arzigogolare, ricercare trame, scendere il più possibile nella coltre della superficie. Quindi, con una battuta, direi che i miei sketch sono semplici e istintivi, ma non troppo.
Quali sono gli artisti che preferisci rappresentare?
I primi che ho rappresentato sono stati i Subsonica, band che amo tantissimo e che mi ha dato molto, sotto molteplici aspetti. Ammetto che preferisco gli artisti italiani, per un semplice fattore di aderenza alla lingua. Un po’ come avviene per le traduzioni dei testi, quando il significato viene ad essere in qualche modo stravolto, pur se di poco.
Dunque vedendomi un po’ in questa veste di ‘traduttore’ in immagini prediligo testi italiani. Anche se non ho potuto resistere al fascino di alcuni capolavori di artisti quali i Radiohead e gli Oasis. In questo caso il linguaggio diviene universale e ciò che conta è semplicemente il valore della bellezza.
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